L'Intervento
a 'I Nuovi Mille' su Rai2
La Storia dell'Acqua in Bottiglia
Vediamo ora di capire come esso veniva realizzato. Il punto di partenza era detto caput aquae, ed era un bacino di raccolta costituito da dighe o sbarramenti se la fonte era posta in superficie; se questa era sotterranea, si provvedeva invece, tramite dei pozzi e delle condutture, a convogliare tutta l’acqua in un unico punto, detto sempre caput aquae. I tecnici, al fine di stabilire il percorso dell’erigendo acquedotto, si servivano di uno strumento chiamato coròbate10, simile a un’odierna livella, ma più grande. Il canale di conduzione (specus) era più grande di quello che si può immaginare, per permettere a un uomo di camminarvi in piedi all’interno per provvedere alla manutenzione dell’acquedotto. Esso era di classica forma trapezoidale, rettangolare alla base e triangolare in cima, con un profilo che ricorda quello di una facciata di una casa un po’ allungato verso l’alto. I materiali con cui era costruito erano pietra o muratura con una copertura di cocciopesto (una speciale mistura impermeabile a base di laterizi e calce mischiati). I tubi metallici, in piombo11 o bronzo, erano molto costosi, inoltre, il primo di questi due metalli non era adatto a lunghi condotti e veniva impiegato soprattutto per le tubazioni cittadine. L’acciaio non era disponibile e la ghisa era di difficile lavorazione.
Tornando a parlare del percorso dell’acquedotto, se s’incontrava un ostacolo naturale alla sua prosecuzione, si utilizzava la tecnica del “sifone rovesciato”. L’acqua era accumulata in una struttura a forma di torre e poi fatta discendere, ad esempio lungo il fianco di una vallata, grazie ad una conduttura forzata, così che il suo stesso peso portava l’acqua a risalire l’altro costone della valle sempre grazie ad una conduttura. L’acqua che si accumulava, spinta dalla forza di gravità a proseguire il proprio corso, sospingeva altra acqua a risalire i pendii senza l’ausilio di alcun marchingegno meccanico. Il rischio di tutto ciò era però rappresentato dall’aumento di pressione e i condotti utilizzati non erano in grado di resistere a sollecitazioni intense e prolungate.
Si preferiva quindi fare molte deviazioni nel percorso, ma evitare spazi di terreno che avrebbero presentato asperità troppo rilevanti; in alternativa si potevano costruire ponti che avessero consentito il transito lineare dell’acqua, sempre con il rispetto della necessaria pendenza, cosicché terminato l’attraversamento della depressione, il condotto potesse tornare sotterraneo. I percorsi sotto terra non erano quasi mai in linea retta, per consentire un miglior deflusso delle acque. Ad esempio, molti degli acquedotti di Roma, che avevano la propria fonte sui monti a est della città, vi entravano da sud-est, compiendo una decisa variazione avendo presente la linea diretta che unisce idealmente l’Urbe con il luogo dove sono le sorgenti12. La maggior parte degli acquedotti di Roma raggiungeva la città, come detto da sud-est, in un luogo chiamato Spes Vetus (speranza vecchia), per via della presenza di un tempio dedicato alla Speranza. Intorno all’acquedotto era fatto obbligo di rispettare una fascia di sicurezza di circa un metro e mezzo se sotterraneo o di quattro metri e mezzo se in superficie; questo per impedire la pratica degli allacciamenti illeciti e in ogni caso prevenire ogni attività umana che potesse ostacolare il corretto funzionamento dell’acquedotto.
Va comunque specificato che un acquedotto che corresse sotto il livello del suolo era la soluzione più ricercata e che i tratti sopra terra, che tanto affascinano per il loro elegante succedersi di arcate, erano eventuali. Questo avveniva soprattutto in avvicinamento alla città, dove il terreno è pianeggiante. Le arcate raggiungevano altezze considerevoli (circa 30 metri), perché più l’acqua viaggiava più alta, più zone della città sarebbe riuscita a raggiungere (a Roma l’acqua entrava generalmente dal colle Esquilino, da dove veniva distribuita agli altri quartieri). L’acquedotto, ad entrambe le sue estremità, era dotato di vasche di decantazione (in latino piscinae limariae), nelle quali l’acqua, riducendo la propria velocità di scorrimento, si depurava delle impurità più consistenti che si accumulavano, per via del loro maggiore peso, sul fondo. Altre vasche erano disseminate lungo il tragitto dell’acquedotto, in maniera da permettere una sempre maggiore purificazione dell’acqua. Questi bacini situati al termine dell’acquedotto erano contenuti all’interno di una struttura denominata castellum, dove inoltre l’acqua veniva distribuita, tramite delle bocche a forma di calice, nelle molte condutture urbane, costituite da appositi mattoni cavi (lapides perterebrati), che incastrati fra loro rendevano la conduttura impermeabile, oppure da tubi di piombo.
Le condutture urbane erano di tre tipologie: la prima ad uso esclusivo dello Stato, la seconda ad uso pubblico, l’ultima ad uso dei privati che ricevevano direttamente l’acqua nelle proprie doma. Quanto ai castella13, ve ne erano di principali, al termine dell’acquedotto e altri secondari nelle varie zone della città, al fine di consentire una distribuzione capillare. Alcune volte il castello principale era impreziosito da una “mostra d’acqua”, una monumentale fontana volta a solennizzare l’arrivo dell’acqua in città14.
Il castellum aveva anche la funzione di sopperire, con la quantità d’acqua accumulata nelle proprie vasche, ad eventuali cali di pressione o di rifornimento idrico, che avrebbero potuto compromettere la distribuzione delle acque in città. A questo scopo erano stati previsti degli addetti (metitores) i quali vegliavano affinché nessuna parte di Roma rimanesse senz’acqua e si prevenissero così gli eventuali disordini che sarebbero potuti sorgere come conseguenza.
Il mantenimento in funzione del dotto era un’attività necessaria, da svolgersi continuativamente ed è per questo motivo che sopra il percorso sotterraneo erano sistemate delle pietre miliarie, detti cippi, che ne segnalavano la presenza, permettendo così anche il rispetto della già detta distanza di sicurezza minima. Inoltre l’accesso allo specus veniva garantito da pozzi muniti di scalini situati a distanze fisse o da aperture nella conduttura se l’acquedotto passava in superficie.
10 Esso era formato da un supporto in legno dal quale pendevano dei pesi di piombo. Quando questi pendevano parallelamente alle gambe dell’attrezzo e se una vaschetta d’acqua appoggiata sul ripiano stava diritta, si tracciava una linea orizzontale immaginaria seguendo il percorso per cui si voleva far passare l’acquedotto. Tutto questo veniva ripetuto ogni 10 metri fino a poter stabilire dove farlo passare.
11 Per capire la vastità ed il respiro delle opere in cui si cimentavano, basti pensare che nella sola città di Lugdunum (Lione) furono utilizzate, secondo un calcolo degli studiosi del settore, 2000 t. di piombo.
12 Poteva anche capitare che un acquedotto potesse condividere lo stesso viadotto con un altro scorrendo, naturalmente, in condotti separati posti a livelli differenti.
13 Il loro numero totale nella città di Roma era di 247.
14 Si pensi, per esempio, ai “Trofei di Mario” al termine dell’Aqua Alexandrina, nell’odierna Piazza Vittorio.
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